Geopolitica in allerta dopo l’attacco USA all’Iran

Un recente attacco statunitense ha segnato un punto di svolta nella crisi in Medio Oriente. Gli Stati Uniti hanno confermato di aver bombardato tre impianti nucleari chiave in Iran — Fordo, Natanz e Isfahan — in un’operazione chirurgica mirata, secondo l’amministrazione Trump, a smantellare preventivamente la capacità di arricchimento dell’uranio del regime iraniano. Questa azione rappresenta non solo l’ingresso diretto in un conflitto che fino a quel momento si era sviluppato tra Israele e Iran, ma anche un deterioramento qualitativo delle condizioni per una soluzione diplomatica.

L’Iran ha definito l’attacco un atto di aggressione “selvaggia” e ha dichiarato che “tutte le opzioni sono sul tavolo”. Il suo ministro degli Esteri ha affermato che la porta della diplomazia “non è più aperta” e ha messo in discussione il valore della permanenza nel Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Secondo Teheran, questo quadro normativo non ha protetto il Paese da un’aggressione contro impianti nucleari sotto supervisione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica. Se questa posizione venisse confermata, non solo ostacolerebbe ulteriormente il dialogo diplomatico, ma potrebbe anche ridurre la trasparenza sul programma nucleare iraniano.

Nonostante la gravità dello scenario, la risposta iraniana è stata finora relativamente contenuta: alcuni lanci di missili verso il territorio israeliano e un’intensificazione del linguaggio diplomatico, ma senza attacchi diretti contro interessi statunitensi. Questa cautela potrebbe essere spiegata da una combinazione di fattori. Sul fronte interno, l’economia iraniana è fragile: l’inflazione supera il 40%, la crescita prevista è marginale e le sanzioni continuano a bloccare l’accesso a valute estere e finanziamenti. A ciò si aggiunge un clima sociale complesso, con una legittimità interna del regime erosa da anni di tensioni e proteste.

Sul piano internazionale, l’Iran resta isolato. Né la Russia né la Cina, pur avendo criticato gli attacchi, hanno offerto un supporto materiale o una copertura politica significativa. Questo isolamento riduce l’incentivo strategico a una escalation diretta e immediata, anche se non elimina il rischio di una risposta indiretta, asimmetrica o cibernetica nelle prossime settimane.

Nelle ultime ore, il Parlamento iraniano ha approvato una risoluzione che autorizza la chiusura dello Stretto di Hormuz qualora il governo lo ritenesse necessario. Questa decisione è significativa: rappresenta il passaggio dalle minacce alla capacità legale di agire immediatamente su una delle rotte energetiche più critiche del pianeta, attraverso cui transita circa il 20% del petrolio mondiale. Tuttavia, la chiusura effettiva dello Stretto di Hormuz non sarebbe né semplice né immediata per l’Iran, nonostante il suo parziale controllo geografico dell’area.

In primo luogo, qualsiasi tentativo di blocco implicherebbe un atto apertamente ostile secondo il diritto internazionale, il che potrebbe attivare una risposta militare coordinata da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati del Golfo, che mantengono una presenza navale permanente nella regione. In secondo luogo, la deterrenza militare statunitense è notevole: la Quinta Flotta, con base in Bahrain, è specificamente orientata a garantire la libertà di navigazione in acque strategiche come quelle dello Stretto. Inoltre, un blocco prolungato richiederebbe non solo capacità offensiva, ma anche resilienza logistica, un aspetto compromesso dalle limitazioni economiche e tecnologiche dell’Iran rispetto alle forze occidentali.

Infine, il principale danneggiato da un’interruzione prolungata del flusso di petrolio nello Stretto di Hormuz sarebbe la Cina, che importa circa il 40% del suo greggio attraverso questa rotta. Una chiusura dello stretto farebbe impennare i costi energetici per Pechino, peggiorerebbe la sua bilancia commerciale e aggraverebbe ulteriormente la ripresa economica. Questo aggiunge un livello di complessità strategica: l’Iran rischierebbe di infliggere un danno collaterale considerevole a uno dei suoi pochi partner globali rilevanti, il che potrebbe compromettere parte del sostegno politico, seppur tacito, ricevuto dalla Cina. Per tutti questi motivi, la minaccia di un blocco rimane più uno strumento di pressione che un’opzione operativa da eseguire nell’immediato.

Tuttavia, lo scenario resta volatile e l’incertezza elevata. Qualsiasi segnale concreto di interruzione nello Stretto di Hormuz, o un’escalation militare diretta, aumenterebbe automaticamente il premio di rischio sugli asset energetici e riaccenderebbe i timori inflazionistici su scala globale. Va però ricordato che i mercati hanno imparato a gestire questo tipo di situazioni: storicamente, gli shock geopolitici tendono ad avere un impatto limitato nel tempo, a meno che non sfocino in conflitti prolungati.

In questo contesto, la riduzione tattica dell’esposizione ai mercati azionari adottata nelle scorse settimane appare oggi ancora più sensata. In assenza di visibilità nel breve termine, questa scelta va letta come una mossa prudente di protezione, in un quadro segnato da un crescente accumulo di rischi. Proprio come la comparsa della nebbia ci impone di rallentare mentre guidiamo, ridurre l’investimento in azioni consente di contenere la volatilità e mantenere la flessibilità necessaria per eventuali aggiustamenti futuri.

In definitiva, ci troviamo di fronte a una situazione delicata, senza dubbio, ma che può ancora essere gestita se si evita una spirale di ritorsioni e si mantengono aperti alcuni canali di comunicazione indiretta. L’assenza, finora, di attacchi massicci da parte dell’Iran, il tono prudente dei mercati e la reazione ancora contenuta degli asset finanziari lasciano sperare che, sebbene la tensione resti elevata e gli scenari di rischio possano peggiorare nelle prossime ore, ci si trovi di fronte a un altro episodio in una dinamica geopolitica complessa che i mercati hanno imparato a gestire.