Cento giorni di scosse politiche ed economiche
Nei primi 100 giorni del nuovo mandato di Donald Trump, la politica commerciale è stata senza dubbio la protagonista. Il presidente ha imposto dazi che superano persino gli scenari peggiori previsti all’inizio dell’anno, provocando un vero e proprio terremoto nel commercio globale. Nonostante nelle ultime settimane siano emersi segnali di allentamento delle tensioni —tra cui un possibile cambio di tono nei confronti della Cina e negoziati aperti con partner come India, Giappone e Corea del Sud— l’incertezza continua a gravare sul panorama economico.
I mercati finanziari hanno reagito con ottimismo alla possibilità che si raggiungano accordi e si eviti un conflitto commerciale più profondo. Tuttavia, questa apparente calma potrebbe nascondere l'entità del danno già inflitto al tessuto economico globale. Di fronte a condizioni commerciali instabili, molte imprese stanno rimandando decisioni cruciali su investimenti e catene di fornitura. Questo suggerisce che, anche in caso di un allentamento dei dazi, l’impatto negativo sulla crescita economica potrebbe persistere più a lungo.
In questo contesto, la politica estera statunitense ha mostrato alcuni progressi. L’accordo sui minerali recentemente firmato con l’Ucraina rappresenta un passo significativo. Sebbene non includa garanzie di sicurezza esplicite, consente agli Stati Uniti di restare al tavolo dei negoziati in un momento in cui le tensioni minacciavano di far deragliare il processo di pace. Nel frattempo, in Medio Oriente, la situazione rimane bloccata e la mancanza di progressi a Gaza contrasta con la volontà di dialogo dimostrata nel caso ucraino.
Sul fronte fiscale, Trump ha incentrato la sua agenda sull’estensione dei tagli fiscali del 2017, il che comporterebbe un costo stimato di 4.600 miliardi di dollari nel prossimo decennio. La grande domanda che incombe sul Congresso è come verrà finanziata una misura così ambiziosa. In questo senso, l’aumento delle entrate derivanti dai dazi ha generato introiti significativi per il Tesoro —circa 17 miliardi di dollari ad aprile— anche se si tratta di una fotografia temporanea, poiché riflette principalmente le importazioni del mese precedente.
Dall’altro lato, il piano di deregolamentazione promosso da Elon Musk ha inciso profondamente sull’occupazione nel settore pubblico federale. Attraverso il Dipartimento per l’Efficienza Amministrativa, sono stati tagliati circa 250.000 posti di lavoro, tra licenziamenti e incentivi alle dimissioni. Nonostante il governo parli di un risparmio di 160 miliardi di dollari, molti osservatori restano scettici sull’impatto reale della misura nel contenere il deficit, dato che gli stipendi pubblici costituiscono solo una minima parte della spesa federale complessiva.
Anche l’immigrazione ha subito un cambiamento drastico. I dati mostrano un calo netto e marcato dei flussi migratori, in particolare lungo il confine sud. Sebbene gli arresti siano aumentati, le deportazioni restano al di sotto degli obiettivi fissati in campagna elettorale. Questa contrazione dell’immigrazione rischia di avere, nel medio termine, un impatto negativo sulla disponibilità di forza lavoro e sul potenziale di crescita economica.
A livello macroeconomico, il panorama globale si è deteriorato in modo significativo. Nel primo trimestre, il PIL degli Stati Uniti è diminuito dello 0,3%, spinto da un aumento del 40% delle importazioni, fenomeno legato all’accumulo di beni in vista dell’inasprimento dei dazi. Nel frattempo, si è registrato un rallentamento dei consumi interni, ma in misura meno marcata. Nonostante questa contrazione, il mercato del lavoro mostra ancora una certa resilienza, con un tasso di disoccupazione stabile al 4,2% e una media di 150.000 nuovi posti di lavoro creati ogni mese.
In Europa, la ripresa del PIL nel primo trimestre (0,4%) sembra più che altro un’illusione statistica, derivante dallo stesso fenomeno di “anticipazione commerciale”, in particolare nei paesi periferici. L’inflazione ha sorpreso al rialzo, spinta dai servizi e da fattori stagionali come la Pasqua tardiva, ma ciò non cambia la prospettiva di fondo di un contesto disinflazionistico.
La Cina, a sua volta, comincia a risentire degli effetti della guerra commerciale. L’indice PMI manifatturiero è sceso a quota 49 punti in aprile, entrando in territorio di contrazione, con cali diffusi negli ordini all’export, nella produzione e nell’occupazione. Questo indebolimento dell’attività industriale rischia di estendersi ai servizi legati al commercio, come trasporti e logistica.
Di fronte a questo contesto così volatile, le banche centrali hanno scelto un approccio prudente. La Federal Reserve continuerà la sua pausa, lasciando i tassi tra il 4,25% e il 4,50%, in attesa di maggiore chiarezza. Al contrario, si prevede che la Banca d’Inghilterra riduca i tassi questa settimana, mentre la Banca del Giappone ha segnalato che interromperà gli aumenti in un contesto più incerto.
In definitiva, sebbene i mercati manifestino ottimismo verso la speranza di accordi commerciali e il contenimento di scenari estremi, il quadro economico globale resta dominato dalla fragilità. La tensione tra ottimismo finanziario e realismo economico scandisce il ritmo di una ripresa che, per ora, appare ancora piena di ostacoli.